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domenica 11 gennaio 2009

Classici e paccottiglia tra le letture di Hitler

di Massimo Raffaeli
OCCASIONI MANCATE
Classici e paccottiglia tra le letture di Hitler
La disinvolta ricostruzione di Ryback
Timothy W. Ryback, La Biblioteca di Hitler. Che cosa leggeva il Fuhrer, trad. di Nicoletta Lamberti, Mondadori, pp. 262, euro 19.00
Come spesso succede agli autodidatti, Adolf Hitler ebbe con i libri un rapporto compulsivo, da incettatore e rigattiere prima che da collezionista: sugli scaffali della sua biblioteca itinerante coabitavano infatti, alla rinfusa, classici del nazionalismo e dell'irrazionalismo, nonché, ovviamente, dell'antisemitismo (l'immancabile Clausewitz, l'edizione integrale di Fichte donatagli ad hoc da Leni Riefenstahl, così come singoli tomi di Schopenhauer e Nietzsche, la biografia di Federico il Grande scritta da Carlyle, Il mito del XX secolo di Alfred Rosenberg, ecc.) ma anche libri da dozzina quali almanacchi militari, monografie astrologiche, enciclopedie popolari, vite di condottieri e romanzi d'appendice, inclusi i western alla tedesca di Karl May. Come invece succede agli scrittori dilettanti (e il Mein Kampf ne rimane il più solenne e sinistro monumento), Hitler esercitava su di essi un brutale saccheggio: stralciava dai suoi libri, che non leggeva quasi mai per intero, i passi che gli sembrassero ad effetto, li mandava a memoria e poi, raramente citandoli, procedeva a incorporarli in vista della pagina ancora da scrivere o del prossimo comizio.
Arrivò a possedere circa ventimila volumi, compresi gli omaggi dei servi e degli innumerevoli ossequienti al suo regime: già scampati allo zelo censorio del proprio ufficio di segreteria, al momento del suicidio del Fuhrer (30 aprile '45) i volumi di sua proprietà occupavano non meno di tre biblioteche: quella ufficiale della Cancelleria, quella del Berghof, il buen retiro sulle Alpi Bavaresi, e quella del Bunker terminale, unitamente a siti minori di Monaco o Berlino e alle varie biblioteche da campo che la guerra avrebbe via via moltiplicato. Alla Liberazione, questo patrimonio bibliografico condivise la disfatta della Germania: andò distrutto, espropriato o svenduto al mercato nero. Un nucleo consistente sopravvisse tuttavia, sotto la segnatura «Hitler Library», presso la Library of Congress di Washington ed è ciò che si propone di analizzare Timothy W. Ryback in La Biblioteca di Hitler. Che cosa leggeva il Führer. Il lavoro, complessivamente onesto, è al tempo stesso un'occasione mancata o, in altri termini, un libro che ambirebbe alla compiutezza storiografica e però resta nei paraggi del reportage. Non è mai chiaro se Ryback si proponga di ricomporre almeno in effigie un patrimonio bibliografico disperso oppure di usarne i testi residui per ricostruire, almeno a grandi linee, la formazione del pittore fallito nonché ex caporale dell'esercito asburgico. Fatto sta che Ryback rimane a mezza strada perché tutta la prima parte del suo studio si riduce a una analisi delle fonti storico-filosofiche, abbastanza risapute, del Mein Kampf (con una certa opacità quanto agli specifici dell'antisemitismo hitleriano, se si eccettua il richiamo a L'ebreo internazionale di Henry Ford) mentre la seconda parte insegue le avventure bibliografiche del dittatore, sempre molto singolari ma inevitabilmente frammentarie e dunque aneddotiche.
Manca innanzitutto una descrizione analitica dell'attuale Fondo di Washington o almeno un elenco sommario dei libri che lo compongono; inoltre la bibliografia che Ryback adduce ad ogni singolo capitolo non solo è scarna ma è citata, all'occorrenza, con eccessiva approssimazione (e stupisce non vi sia mai menzionato il lavoro fondamentale, e pionieristico, di Victor Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich, edito in Italia da Giuntina nel '99 con la prefazione di Michele Ranchetti). Peraltro lo stile espositivo di Ryback ha il pregio della linearità e della chiarezza, non esclusa la disinvoltura per cui oggi vanno celebri certi divulgatori anglosassoni: ad esempio, il motto habent sua fata libelli più volte rammentato nel testo come fosse anonimo e infine attribuito in epigrafe a Walter Benjamin, nientemeno, è in effetti un verso proverbiale del De litteris (II sec. d. c.) di Terenziano Mauro. In realtà, è come se la biblioteca di Hitler, con tutta la sua paccottiglia, non fosse mai esistita; la sua vera biblioteca, per micidiale contrappasso, era quella che i nazisti avevano bruciato ritualmente nei falò del maggio 1933. Proprio un amico e collaboratore di Benjamin, che ovviamente Ryback ignora, vale a dire Leo Lowenthal, avrebbe cominciato il suo discorso per il cinquantesimo anniversario dell'olocausto bibliografico (I roghi dei libri, a cura di Elena Lowenthal, il melangolo 1991) citando i versi profetici di un ebreo tedesco, Heinrich Heine: «Là dove si danno alle fiamme i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini».

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